sabato 23 giugno 2012

IL COSTRUTTORE DI ILLUSIONI. Sfoglia l'anteprima

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Il carattere della bellezza è ambiguo?


UN MIO CONTRIBUTO AL DIBATTITO:
Il ruolo dell'arte tra cultura ed economia
PROMOSSO dal prof. ANTONIO CIRACI
durante il finissage dellla Mostra 5X5
alla Galleria d'arte APOTHECA 
Pozzuoli 21 Giugno 2012

Il carattere della bellezza è ambiguo?
di Mario Scippa

opera di Peppe Gargiulo







Ringrazio Peppe Gargiulo e Antonio Ciraci per avermi invitato a questo incontro. Il tema di questo incontro è Il ruolo dell'arte tra cultura economia.

Io non sono un economista, neanche un artista.

Non posso parlare ne di arte ne di economia, tanto meno del rapporto tra arte e economia.
Sono invece un poeta. Sì! un poeta.
Fino ad un po’ di tempo fa mi imbarazzavo a definirmi tale. La sentivo una parola troppo grande, una definizione per personaggi che vivono nel mondo della fantasia o del mito. Però siccome io ho questo maledetto vizio di non fermarmi su ciò che appare scontato, in particolare sui significati delle parole, visto che tutti mi definivano poeta, ho voluto indagare il significato delle parole Poeta e Poesia.
Poesia deriva dal greco Poiesis, che letteralmente significa fare, creare, inventare. Per cui poeta è colui che fa che crea che inventa dal niente qualcosa. Ebbene mi sono riconosciuto in questa definizione e mi piace definirmi uno che con le parole inventa, crea, fa.
Piuttosto che parlare specificamente del tema proposto dagli organizzatori mi piacerebbe affrontare con voi un discorso che sta alla base del tema proposto e fornire qualche elemento, anche solo di taglio poetico, che credo può essere utile al dibattito. Come vi ho anticipato, io non sono un economista, non sono un sociologo, neanche un filosofo, ma semplicemente un poeta, uno che inventa dal niente qualcosa con le parole, per cui inizierò il mio intervento leggendovi un mio piccolo scritto ancora inedito, che è la conclusione di un lavoro che sto terminando e che come spesso mi capita le conclusioni dei libri diventano le introduzioni.
Si tratta di un romanzo strutturato su un discorso sulla bellezza intesa come potente energia naturale e sul ruolo sociale dell'artista inteso come colui che ha la grande responsabilità di rivelarla.






Il mare, azzurro.


Il mare di Napoli, un ventre gonfio di liquido amniotico dove nascono e annegano sogni, desideri, amori, paure, bisogni e speranze.

La pietra, la pietra di fuoco, quella delle viscere della città, il Tufo, giallo, lavorato e diventato fortezza, il castello sul mare.

Due occhi, splendidi, verde smeraldo, meravigliati e stupiti, lacrimano al vento, 
l'aria.

Fuoco, acqua, terra, l'aria


e le mani che accarezzano un viso.

Il vento. E poi un sorriso. Due gabbiani.


Corpi pesanti, attratti dal centro della terra, cadono, 


cadono, cadono,

precipitano velocemente verso il basso.

Di sotto c'è il mare.


Le onde si infrangono sulla pietra gialla del castello.


Aleggia un fantasma, è Newton.


La gravità terrestre accelera la caduta. 


Cadono, liberi, senza sforzo.


Il tempo di un corpo che cade rallenta.


Lo slancio, improvviso, forte e deciso.


Il tempo dilata e in un attimo si fa eternità.


Uno schiocco, un arciere Zen, un calcio alla palla è 


Maradona, colpo di scappello sulla bianca breccia del 


marmo è Michelangelo, un tasto del pianoforte premuto 


da Glenn Gould in una fuga di Bach.


No!


È un taglio netto, pulito, sulla vergine, bianca superficie 


di una tela che va oltre la dimensione scontata. 


E’ Uno schiocco nell'aria.


Lo sforzo incredibile di vincere la gravità si traduce in 


un suono, secco, breve che accompagna la svolta, 


l'iperbole esatta, la risalita, disegnata nell'aria dai due 


gabbiani.


E Poi…. il silenzio.


Ali stese galleggiano nell'aria. 


Nel silenzio c'è tutto.


Perché, non va bene?


Sono frammenti di bellezza o è solo un elenco?


Un elenco, meraviglioso! e poi...


… ci sono anche i miei occhi. 


Sono i miei occhi nei tuoi occhi, vero?


Forse sono i tuoi occhi. 


Come forse è il tuo sorriso confuso col mio e forse è la 


mia mano, che asciuga la lacrima che cade sul viso.


No! E' il vento.


Ed io bevo il tuo sguardo stupito.


...che bellezza!

foto Saverio De Meo
La bellezza
In un suo intervento all'inaugurazione di una mostra, qualche tempo fa, il filosofo napoletano Aldo Masullo disse: L'arte è uno strumento che ci permette di andare oltre i confini del sensibile, là dove è possibile rintracciare la bellezza.
La bellezza.
La bellezza contiene in sé una forza salvifica, sosteneva Dostoevskij.
La bellezza,
l'unica vera forza che ci può salvare da questo abisso nel quale negli ultimi anni siamo precipitati.
La bellezza,
ci ricorda il grande Erri De Luca, è quella energia potente che vincendo la forza di gravità, partendo dal centro della terra, si espande in tutti i punti dell'universo attraversando ogni cosa, animata e non.

Coloro che fanno arte sono tra quelle persone che hanno il dovere morale di rintracciare e rivelare a noi altri questa potente energia dalla forza salvifica.
Gli artisti, sì!
Perché gli artisti sono coloro i quali riescono ad isolare un frammento di spazio e di tempo dal continuo divenire, ad isolarlo dal caos costruendo un ordine, una forma.
Spesso, questo frammento spazio-temporale viene isolato per caso.
Il Caso. E' quell'attimo di ordine nel caos dell'universo che è intorno a noi, un ordine che è la manifestazione di quella energia di cui parlano De Luca, Dostoevskij, Masullo e altri grandi pensatori:
la bellezza, che viene rivelata dal poeta, dal fotografo, dall'artista, spesso per caso con un'altra potente energia:
la luce.

Bellezza, energia, forma, materia, massa, luce, tempo.

Tutti elementi che l'artista, ogni artista, mette in relazione tra loro per costruire una forma, e lo fa a prescindere dall’uso spesso strumentale che poi l’economia e anche la politica ne fa di questa forma.
Energia, Materia, Luce, Tempo.
Sono gli stessi identici elementi alla base del pensiero di un grande pensatore del secolo scorso, che è stato anche colui che ha completamente ribaltato tutte le teorie della misurazione delle spazio e del tempo e che sulle sue riflessioni sulla materia, sull'energia, sul tempo, sullo spazio, sulla luce,  sono basate tutte le speculazioni moderne nella scienza, nella fisica e nel pensiero filosofico. Parlo di Einstein.
Il quale arriva alla sua famosa formula mettendo in relazione, costruendo una eguaglianza, gli stessi identici elementi che mettono in relazione gli artisti:  l'elemento immateriale per eccellenza, l'energia, con l'elemento materiale per eccellenza, la massa delle cose, in rapporto ad una costante la velocità della luce. E = mc2
Forse Einstein, consapevole dell’esistenza reale di questa forza salvifica naturale, voleva solo trovare una formula matematica per misurarla, una formula per misurare la bellezza. 
Forse.

E=Mc2 ve la ricordate?

Einstein viveva una forte religiosità. Dio per lui a differenza della visione Ebraico-Cristiana, non era un Dio personale, antropomorfo, ma era pura energia che attraversava ogni cosa, era la massima espressione immateriale, l'energia pura, come La Bellezza.
Con questa formula Einstein ci dice che Dio (l'energia) non è altro che la massa di ogni cosa (la materia) moltiplicata per la velocità della luce al quadrato.
Einstein pensava che Dio rivelasse se stesso nella meravigliosa armonia e nella bellezza razionale dell’universo che suscitano un’intuitiva risposta, non concettuale, nella meraviglia, rispetto e umiltà che egli associava con la scienza e con l’arte.

La formula della relatività:

-da un lato ci dice che che il tempo non è oggettivo ma soggettivo, quindi che noi viviamo in infiniti tempi tutti diversi tra loro e che in questi infiniti tempi c'è un continuo attraversamento in ogni cosa materiale di qualcosa di immateriale, che accomuna tutto: l'energia;

-dall'altro ci fa vivere l'annullamento del tempo, quando questa formula viene trasformata e diventa la formula base per la realizzazione della più terrificante delle armi di distruzione di massa che l'uomo abbia mai creato.

Se quella era la formula per misurare la bellezza diventa chiaro che La bellezza, questa grande e potente energia che parte dal centro della terra proiettandosi in tutti i punti dell'universo e che contiene in sé un grande forza salvifica, e che può essere vista e vissuta solo oltre i confini del sensibile, contiene un carattere ambiguo:
da forza salvifica può facilmente tramutarsi in forza distruttiva.

La bellezza ha un carattere ambiguo 
ce lo ricorda anche Dostoevskij quando nella traduzione russa di quella frase la bellezza salvera' il mondo, nel testo originale leggo scritto
MIR SPASET KRASOTA'
che letteralmente significa
il mondo deve salvare la bellezza.
Un netto capovolgimento semantico della frase cui siamo abituati a sentire ma che ci da l'idea chiara del carattere ambiguo che la bellezza può contenere.

Oggi, come mai prima, l' immaginario, il simbolico, si traduce in opera d'arte anche attraverso una valorizzazione economica.
Di questo carattere ambiguo della Bellezza l'economia e, quindi, la politica (che oggi più che mai coincidono) ne sono consapevoli, e la bellezza, quale manifestazione dell'arte è spesso soggetta ad un suo uso strumentale, per ricavarne profitto, quindi potere economico e, con scopi demagogici, contribuisce a ricavare potere politico.
L'arte è principalmente una forma simbolica. Un tempo il simbolo nell'arte era l' equivalente occulto e misterioso di qualcosa di immateriale,
oggi il simbolo si è in certo senso «solidificato» diventando merce.
Dall'avvento della industrializzazione, dalla riproducibilità tecnica dell'arte, dal design alla moda alla pubblicità ecc ecc. ogni nostra azione, ogni oggetto realizzato, riveste un aspetto simbolico. Un processo che permette di individuare la presenza di un sistema simbolico anche oltre i confini stretti dell'arte, come nell'oggetto domestico come nel grattacielo, nella video-performance come nella pubblicità, nella moda ecc ecc.
Certo non dico che si dovrebbe tornare indietro, separando il campo del simbolo, dell'arte, da quello dell'economia, sarebbe impensabile, ma almeno potremmo sperare che in un futuro non tanto remoto, arte e economia, pur continuando a convivere, non rinuncino ad essere guidati da quel misterioso istinto che deve sopravvivere tanto nella merce quanto nell'opera di «arte pura»; e che è il solo a poterci guidare e proteggere nei labirinti simbolici per sancire il valore (autentico non solo economico) dell'arte.

Ma questo obbiettivo, di felice convivenza tra queste due dimensioni, a mio avviso, potrà raggiungersi solo quando l'artista diventa consapevole del suo importante e fondamentale dovere morale che è quello di rintracciare e rivelare agli altri la bellezza, che può solo farlo svincolandosi completamente dai meccanismi economici e politici i quali hanno tutti gli strumenti necessari per trasformare la bellezza in qualcosa di tremendo ed orribile.

L'artista, ovvero colui che ha il dono della natura di poter rivelare la bellezza, per essere tale deve prima di ogni altra cosa sentirsi leggero e libero di volare come quei due gabbiani.
Deve essere consapevole che quella leggerezza la può raggiungere solo con un incredibile sforzo anche fisico e che se non riesce a librare e a volare nel vento corre il rischio di diventare solo uno strumento per l'economia e per il potere politico di turno, vivendo una vita fatta di falsa leggerezza come quella di una piuma che lentamente cade, sprofondando nell'abisso della vacuità.

Grazie
M.S.
© copyright 2012

mercoledì 20 giugno 2012

Frammenti, Universi di significato, eternità

Frammenti, Universi di significato, eternità.
Note su L'antiquario e il professore di Mario Scippa.
di Giacomo Ricci



















“I suoi occhi avevano una bella luce, sembravano due piccole finestre che affacciavano su un meraviglioso mondo luminoso, la sua anima”.Sono gli occhi di un fotografo napoletano, che vive in uno dei palazzi più belli della Sanità, con una straordinaria scala aperta che fa da filtro tra il cortile e il giardino. Filtra colori, odori, sensazioni, con la sua architettura, le sue sculture i suoi cartocci le sue decorazioni. Il fotografo ha scattato, molti anni prima, una foto particolare, inquietante, sfuggente, che nasconde qualcosa. Detta così sembra di avere a che fare con un giallo, con un mistero napoletano che aspetta di essere messo alla luce. Chi per caso s’imbatte, per caso (ma sarà davvero un caso?), in questo interrogativo che pretende risposta è Maurizio Santamaria. Ha nelle mani una foto, trovata e acquistata senza sapere neanche perché in un mercatino, che apparentemente ritrae una scena banale di alcuni scugnizzi , sei ragazzotti, che si tuffano nelle acque del mare. Eppure quell’immagine semplice, di semplice divertimento assai diffuso a Napoli, lo inquieta. In una regione non ben precisata della sua personalità, accende domande e sollecita sensazioni diffluenti, indistinte, che spingono ad approfondire, a capire. Santamaria è un architetto ma il suo mestiere, quello che ha ereditato dal padre che, a sua volta, l’ha ereditato dal nonno, è quello dell’antiquario. Un mestiere che fa con grande passione, con un impegno tanto spinto che diviene, presto, una filosofia di vita, un modo di leggere il mondo e interpretarlo. La sua è una vecchia bottega in un quartiere bene di Napoli. Santamaria si permette una punta di eresia rispetto al mestiere, almeno come lo intendono gli altri antiquari suoi vicini delle zone chic della Riviera e di Piazza dei Martiri. Una curiosità acuta, un’intelligenza profonda, introspettiva, poliedrica, questi i tratti della personalità dell’architetto-antiquario, che ne caratterizzano le azioni e la ricerca di senso in ogni minima azione del quotidiano. Una storia fatta di inseguimenti, di ritrovamenti di oggetti lontani, di percorsi che portano nei vicoli più bui di Napoli, di incontri straordinari ha così inizio fino a giungere e, in qualche modo, a concludersi in un rapporto profondo, di straordinaria comunione spirituale. Quello che si stabilisce tra l’antiquario-venditore e un anziano scrittore-cliente. Elemento catalizzatore di questa affinità spirituale è un oggetto con la sua aura, il mistero del suo stile, il suo significato, le memorie che ad esso stanno attaccate come invisibili pellicole di senso, l’immaginario di chi osserva che proietta ansie, desideri, timori. L’oggetto sarà regalato a chi si ama. Ma diviene anche il viatico per un profondo scambio di idee tra i due e di singolare comunanza spirituale. Si capisce subito che il libro è più di una storia. Anzi, a rigore, neanche di storia si può parlare ma di frammenti. E qui sta il suo pregio, a mio parere. E’ Scippa stesso a raccontarci di amare “quelle storie organizzate come la struttura di un albero, dove ciò che immediatamente si vede è tutto quello che c’è fuori: il tronco, i rami primari, quelli secondari, i ramoscelli, le foglie agitate dal vento della fantasia”. E più avanti ci confessa che ama “perdersi nel racconto di quelle storie fatte di frammenti di racconti o di libri mai finiti”. Perchè la storia vera, quella che ha significato e che è il vero nerbo di uno scritto, è come le radici, non si vede, ma si percepisce, se ne intuisce la presenza con un atto di amore per il libro, per la vita, per gli altri e per se stessi. Un pensiero, questo cui Scippa allude, che non mi ha mai abbandonato e che ho vissuto intensamente come rischio, quello del libro del libro, la racconta del backstage, come si usa dire oggi , oppure la raccolta, che uno può rimescolare come vuole, di frammenti autosufficienti il cui collegamento arbitrario è lasciato allo stesso lettore. Io credo che l’interesse per i materiali della narrazione, per l’aura, per l’atmosfera complessiva, più che per la storia in se stessa - che non rappresenterebbe altro che un congelamento contingente, e neanche tanto significativo, di quel magma di idee-sensazioni-pulsioni-pensieri-immagini - si sia stabilito con prepotenza nella cultura europea moderna, quando nel moderno è scoppiata drammatica, la questione dell’Io e della sua dissoluzione , per l’appunto, in frammenti. Quel tutto monolitico che era la personalità ottocentesca, a tutto tondo, indissolubile, monolitica, si è sgretolata. E coloro che hanno scoperto questa frantumazione dell’Io sono, manco a dirlo, Sigmund Freud con la sua lettura della personalità come complesso assieme di pulsioni, atti mancati, libidini represse, super-Io, e gli scrittori europei del primo Novecento, Joyce e Svevo in testa. Non a caso metto assieme i due, a solo titolo di esempio, data la loro profonda comunione spirituale e il loro lavoro sull’Io attraverso le profondità della speculazione letteraria. Credo che in questi temi si sia poi perduta tutta l’avanguardia, intorno all’idea che la trama sia un gioco da ragazzi, la storiella sia compito del lettore e non dell’autore. L’autore fornisce suggestioni, frammenti, materiali, ingegni, scatole autosufficienti, pensieri, aure per l’appunto, suggestioni di senso compiuto e sia poi l’altro, chi legge a collegare le cose tra loro come vuole, come gli conviene e come sente di doverlo fare. Un’idea interessante questa che nel libro è inizialmente accennata ma che poi, come vedremo tra poco, arriva ad una sua formulazione filosofico-epistemologica estremamente interessante. Un libro che, per frammenti, è tra l’altro anche il racconto della propria crescita culturale, della personalità in formazione (i riferimenti all’università, al professore cui ci si lega e ai libri che ci formano) che scopre e apprezza il mondo e la città che gli stanno attorno. Che insegue i frammenti che compongo la realtà e pensa riflette, elabora, costruisce atteggiamenti, atomi di pensiero. Atomi che sono infiniti come infinito è un istante preso nella sua autonomia, nella sua individualità conclusa. E noi, leggendo di getto le pagine del racconto scopriamo le fasi della crescita, individuiamo i punti di riflessione e di introspezione psicologica. Il percorso di frammenti sfila veloce attraverso la città e penetra all’interno di uno dei quartieri più antichi, popolari e densi di significati stratificati e connessi alle strade, ai palazzi, alle opere d’arte e di architettura. Belle le pagine dedicate al culto delle anime pezzentelle, un mondo ideale reso con rara efficacia da Scippa con pochi tratti essenziali, fondamentali, indispensabili. Con pochi segni, a pennellate rapide, Scippa evoca, meglio di tanti blasonatissimi antropologi nostrani che rimescolano significati, filosofie e folkore in pasticci linguistici incomprensibili, assurdi e buoni solo per un’accademia decotta e totalmente entropizzata, molto di moda in questi anni e nella cultura partenopea, alcuni lineamenti essenziali della napoletanità come meglio ha saputo fare solo Erri De Luca.Ricorda molto il grido “Nu mune’” che De Luca fa dire ad una sua inteprete de Il giorno prima della felicità, la frase che Donna Giuseppina rivolge all’architetto alla ricerca del fotografo: “Giuvinòòòò! A chi state cercando?”.E ancora De Luca mi ricorda il gioco che i raggi del sole devono fare per arrivare dalla cima al pavimento del vicolo stretto quello che Scippa scrive: “Scendevano diritti a quell’ora, i raggi del sole, fino ad illuminare i blocchi di pietra, usati da secoli per il selciato”.Scheggie, frammenti, nuclei solidi di significato elementare che rimandano a una realta complessa e la fanno intuire. La storia è un insieme di frammenti autonomi come il tempo. Il tempo è una sensazione uno scorrere fatuo.“Ogni momento della vita può essere inteso come una forma primaria, fondamentale, perchè l’irreversibilità esclude la ripetizione e un momento della vita può essere vissuto una sola volta ed esprime un significato assoluto: ciò che è vissuto una sola volta è vissuto per sempre, per il male e per il bene”.E arriviamo alla fotografia di cui dicevo all’inizio di queste note. . Santamaria ricerca il fotografo che l’ha scattata e scopre che quella foto è un vero e proprio congelamento del tempo. Nel senso che l’intero movimento di un ragazzo che si lancia, vola e giunge nell’acqua, viene frantumato nei fotogrammi che compongono l’intera sequenza e che ognuno di essi è stato realizzato da un ragazzo diverso in un diverso movimento. Insomma il movimento nella foto viene descritto nella sua compiutezza come se si trattasse dei fotogrammi contemporanei di frazioni di istanti successivi. Ognuno dei frammenti di tempo, di autonome briciole del significato complessivo dell’azione è il congelamento, per pura combinazione, dei movimenti di diverse persone. “Ormai ne era sicuro, la sua intuizione era giusta: quella fotografia esprimeva che qualcosa di veramente importante, era stato fotografato, ovvero, era stato letteralmente scritto con la luce qualcosa che aveva a che fare con un frammento di eternità che si svolgeva ad una incredibile velocità nello spazio e nel tempo ...Quelle sei piccole esistenze diverse, allineandosi spontaneamente in un cinquecentesimo di secondo, hanno scritto con la luce nel tempo, la parola Eternità”.straordinaria coincidenza. E non posso fare a meno di pensare al Compianto sul Cristo morto di Giotto e vedo che il pittore ha seguito questa stessa idea, congelando le azioni dei singoli in un’unica rappresentazione come se il movimento fosse fermato nel tempo e desse, per questo l’idea stessa dell’Eternità. E’ come se il tempo fosse guardato da fuori mentre si compie, come se si svolgesse su una ipotetica e metafisica time-line. Guardare il tempo da fuori significa rendere contemporanei gli istanti che compongono l’azione e quindi eternizzarli, ognuno nella sua integrità ed intelligibilità. Il tempo che trascorre non è più irrimediabilmente perduto ma presente e sempre contemplabile. Una straordinaria idea quella dell’antiquario Santamaria. Un’idea che è venuta anche a Giotto otto secoli fa e che io ho scimmiottato con un disegno che tenta di rappresentare lo stesso concetto. Il libro di Scippa è densissimo di frammenti come questo. Di idee, di foglie dell’albero. Un albero che, a ben vedere, si sviluppa per tutto il libro come una foresta. Le radici sono nascoste. A ognuno di noi il compito di costruire la storia, di immaginarla.
Complimenti Scippa.

sabato 16 giugno 2012

Una lettera ricevuta dal Professore Adolfo Sassi




Al caro Architetto Scippa.


Lei, caro architetto Scippa, ha saputo realizzare, nella sua opera “L'antiquario e il Professore” densa di contenuto, anche se piccola di mole, il miracolo letterario di una attenta, profonda, articolata, entusiasmante e circostanziata introspezione psicologica e, persino, metapsicologica.
La sua è una paradisiaca lettura della vita che sconfigge, con la magia filologica ed espressiva, l'angoscia del quotidiano, collocando, mi si perdoni il bisticcio, il tempo al di fuori del tempo ed il destino nella luce impenetrabile del disegno di vita.
L'amore e l'amicizia, il dolore e la gioia, trovano in lei una sorta di ribaltamento rivoluzionario nell'incanto della lettura dell'eclettismo della mente e del cuore dell'uomo, così l'avvicinamento, l'incontro, il confronto, il mettersi in discussione, che è tipico dell'amicizia e dell'amore, ribalta i luoghi comuni, ribalta il delirio della superficialità sistematica di certo nichilismo letterario, diventa dialogo serrato all'interno della propria coscienza, attraverso la quale il singolo si propone nell'incanto dell'irripetibilità di sentimenti che sono sempre diversi, sempre cangianti, sempre nuovi e la cui novità seduce e crea nuovi orizzonti, collegandosi al miracolo della vita, di cui una delle espressione è il miracolo dell'amore, come il miracolo del sapere, come il miracolo della esplosione creativa in cui il genio artistico diventa genio propositivo di una mentalità nuova, di un cambiamento di mentalità spesso più lento in un mondo di tendenza al cambiamento delle mode e degli strumenti di comunicazione di massa, spesso asserviti ad una sorta di stritolante e soffocante marketing culturale.

La cultura, l'arte o la letteratura, vengono nel suo poemetto, mi consenta di chiamarlo poemetto, allontanati dall'episodio, diventano fattori di coinvolgimento e di epifanie mentali e spirituali nelle quali lei tratteggia, con spirito un po' profetico e con impareggiabile maestria, una sorta di uomo nuovo che si libera dei condizionamenti e degli stritolamenti di un consumismo dilagante e che proietta in una prospettiva letteraria postmoderna, in cui vi sia epifania e caratterizzazione della virtù letteraria quale ricerca, in un silenzio assordante dell'autentico valore dell'arte e della vita.
Il suo non è soltanto lo sforzo di un intellettuale, è un formidabile sogno di serenità e di umanità, di ricerca di tensione e di abbandono. Il suo libro non va considerato un libro cerebrale come quelli di tanta pseudocultura che in fondo manifesta un labirinto di vuoto e la manifestazione dell'uomo di quella mostruosità che tanto inficia la letteratura del “Rinoceronte di Jonesco.
Per lei l'uomo non è un mostro, non è espressione di sensazioni caotiche, ma è figlio di una alta disciplina morale che diventa in lei causa prima e disciplina dell'esistenza in una sorta di Recerche proustiana.

Lei, come in una sorta di lettino di fronte ad uno psicanalista, ricostruisce singolarmente il momento dell'associazione delle idee attraverso la quale in libertà l'anima si sprigiona e cerca la verità, la sua verità, e attraverso questa verità lei legge le profondità sociali come lo stesso destino di una città, Napoli, che ella ama in modo perturbato e commosso e non in modo superficiale come le chiacchiere dei bottegai o i discorsi da bar.
L'arte contemporanea non è, quindi più in lei, arte impegnata ma diventa momento creativo ed oceano di luce, quella luce con cui lei ha letto la mia anima e quella di persone da me amate con cui, con disincantato coraggio, legge se stesso preparando il trionfo di una epoca non più tormentata dai colossi d'asfalto, quelli della via Gluck di celentaniana memoria, ma rilucente del profondo senso dell'uomo che lei riscopre e così un'opera diventa motore di una rinascita che parte dalla nostra mente e dal nostro cuore.
Al pari modo nella sua genialità intimistica, che è una delle manifestazioni epifaniche della genialità, lei ha saputo raccontare il mio singolare ma affascinante incontro d'amore con uomo che ha cambiato la storia del mondo, della Chiesa, la storia della politica, e ciò è noto a tutti ma ha saputo cambiare, come non tutti sanno, anche la storia della cultura; quest'uomo, come i miei genitori che oggi ci guardano dall'alto dei cieli, è stato come la stella cometa che ha guidato la mia vita verso il polo di attrazione del cambiamento del mondo nella realtà terrena e nell'incontro con i cieli, in una sorta di ribaltamento epocale delle categorie in cui credevo e che erano frutto della cattiva coscienza della terra di fronte allo splendore del cielo da dove cade la neve che è bianca come l'anima.

Quest'uomo ha avuto un passo irresistibile; la profezia della mia vita l'ha incontrato, nella storia del mio percorso, sul pianeta come la mia famiglia che ha illustrato Napoli, come i miei amici i quali mi hanno dato un raro grandioso esempio di gigantezza di mente e di cuore, come i miei studenti ai quali sono stato legato da un vincolo di interessi in ciò che credevamo e in ciò che facevamo, come una fata dai capelli rossi ma dal cuore rosso fuoco e dalla mente incendiaria che ha avuto come il grande pontefice polacco l'effetto sconvolgente di mutarmi, di esaltarmi e di proiettarmi in quel mondo delle fate che è il mondo del sogno della sua vita, caro architetto, reso wojtylianamente eclettico e questo è certamente un elemento del wojtylismo che l'ha sedotto dall'abbraccio tra commercio ed arte che costituisce per un antiquario un anello del successo perché è un luccichio del cielo.
Adolfo Sassi.

I confini abbattuti

L'Antiquario e il Professore

I confini abbattuti
di Michele Marseglia

Mario Scippa, ha saputo realizzare, nella sua opera “L’antiquario e il Professore” un vero sforzo letterario di nuova narrativa , nuova nel senso che la lettura della trama di cui avrà modo di parlarvi lo stesso autore si intreccia con l’analisi psicologica dei personaggi dove certamente, e lo chiarirà meglio egli stesso, sicuramente esprime il suo mondo interiore, la sua personale lettura della vita.

Un intreccio psicologico della trama nei personaggi che affiora dal galleggiamento del quotidiano perché emergano valori rimossi e sopiti nella coscienza individuale dei sentimenti e nella coscienza collettiva del tempo dolente. Una lettura, quindi, che alla fine emerge in tutta la sua carica dinamica ed espressiva di una nuova scrittura che dall’oggetto del racconto arriva filologicamente oserei dire (come è stato scritto dal prof. Sassi ) a raccontare quello che ad esso è sotteso, e quando è narrato non è più tale ma appare nella forza metatemporale del tempo che non c’è, un mondo iperuranico, platonico ma nel senso filosofico del termine dove i valori dal concreto diventano astratti ed universali ma ritornano sul terreno amabile, del confronto tra L’antiquario e il professore, un confronto che ci solleva dalle angosce del quotidiano del proprio vissuto, per collocarli in una dimensione di bellezza e di eternità

Valori ai cui riferimenti terminologici siamo avvezzi con abitudine consunta ’amore ,’amicizia, dolore gioia, acquistano una sconosciuta profondità che tiene unite le fila dl romanzo e la bravura dell’autore risiede nella capacità di staccarsi dalla consuetudine narrativa delle proprie esperienze per r trasferirle su un piano filosofico ma non per questo accademico o distaccato per farli assurgere come patrimonio del lettore che si immedesimano nella narrazione di questi valori ideali ed eterni.
Eternità non significa nell’Antiquario e il Professore, immutabilità o staticità del sentimento o dei sentimenti, essi sopravvivono accanto alle idee che riscattano il senso della vita dal disagio del quotidiano, di cui la camorra è uno degli a spetti più salienti pur affrontati, nel libro.
Tali sentimenti hanno una continua e dinamica capacità di rinnovarsi oltre la sopravvivenza e in questo risiede la loro eternità, collegandosi ai valori del sapere, dell’arte, della cultura, che però non sono idee neoclassiche da ammirare estaticamente e staticamente ma promanano dalla vita stessa e dall’amore.
La cultura, l’arte o la letteratura, hanno, si può affermare, un valore apparentemente solo introspettivo ma si parte soltanto dall’episodio, in quanto esse diventano momenti interattivi e di dialogo con il lettore che antropologicamente studiando talune descrizioni di personaggi con la lettura dell’oggi ne trae anche spunti educativi dalla narrazione del passato e delle vicende storiche dell’antico retaggio culturale per tratteggiare una nuova concezione dell’umanità e dei suoi valori svincolati dalla quotidiana angoscia del presente.
Letteratura, storia, filosofia, poesia, si fondono nel libro di Mario Scippa con metodo originale, una nuova ermeneutica del senso della vita e del divenire quotidiano per affondare nel sogno le angosce di ieri e di oggi.

Sembra un gioco psicologico o psicanalitico quello dell’autore de l’Antiquario e il Professore in cui ogni vicenda viene metaipostatizzata dalla sua materiale essenza ma qui risiede la potenza espressiva a e creativa del libro :esso è un continuo sforzo, un senso di ricerca introspettiva in cui l’anima cerca la sua meta e questo affiora soprattutto quando si affrontano i temi sociali o si descrive la storia della napoletanità e dell’acquiescenza culturale alla mentalità camorristica , intesa come espressione e retaggio di furbizia borghese e come mentalità diffusa di comportamenti illegali ma accettati e condivisi ,vero nemico dell’affermarsi della cultura della legalità .
Così stesso destino di una città, Napoli, viene vissuto problematicamente in un rapporto di chiaroscuro di odio amore.
Il collegamento istituto tra due soggetti di un dialogo L’ antiquario e il Professore consente allora di far sì che l’arte contemporanea non sia più vista come arte paludata e impegnata ma diventa momento per illuminarci e illuminarsi con un nuovo modo di intendere l’uomo nella bellezza dei suoi valori che lo caratterizzano ma che tiene sopiti nella tragica quotidiana vicenda a della vita, e che trova nella poesia la sua modalità traspositiva ma non immediatamente espressiva.
La poesia affiora in tutto il libro nelle dinamiche delle relazioni e degli episodi ma dal dialogo tra l’Antiquario e il professore emerge un nuovo modo narrante che abolisce luoghi comuni di separazione dei generi letterari. così che i confini normalmente esistenti tra narrativa e saggistica , poesia vengono abbattuti in una sola scrittura originale, ma complessa e autentica, la scrittura di Mario Scippa.

Michele Marseglia


Intervento alla presentazione del libro L’antiquario e Il professore
organizzato dall’Associazione culturale Irma Bandiera nell’ambito di Erano con la collaborazione dell’Associazione Autismo vivo

Frattamaggiore 21maggio2010

Una bella recensione-commento al mio L'ANTIQUARIO E IL PROFESSORE, di Grazia Coppola


Caro Mario,

quando ti scrissi l’altra volta avevo l’ansia di dirti cose. Ma feci un errore.
Ruppi l’incantesimo del mio rapporto con le tue parole. Lo interruppi.
Dopo non ripresi il filo del libro inspiegabilmente. Ma era un libro che mi piaceva. Lo lasciai così, sospeso. Ora penso che esista un rapporto intimo tra il lettore e il libro, e penso anche che forse la cosa più sbagliata che il lettore può fare mentre legge è parlarne con l’autore. Dopo si. Mi hai ripreso tu per la collottola con questa tua. O forse ieri, quando ho visto la tua foto, ho in qualche modo ripreso il filo io.
Vedendo il tuo spazio l’ho riconosciuto senza esserci stata, perché l’ho in qualche modo letto. Allora ho ripreso il libro dallo scaffale non perché dovevo risponderti, ma perché sapevo di avere un conto in sospeso con quelle pagine.Sorrido pensando che questa estate ancora non facevo scuola di tango, che non c’era nell’aria natale e … insomma.. trovo pretesti per dire che ora era il momento giusto per riavvicinarmi. Quando presi questo libro pensavo di regalarlo a mio marito che ha la passione per l’antiquariato, ora per esempio è da un po’ tornato dal mercatino di Recale. poi iniziando a leggere mi sorprese ritrovare tanto di me dentro, perciò ti scrissi subito. Stamattina ho fatto una cosa che non facevo da anni. sono rimasta nel letto a leggere fino all’ultima parola.
Sono entrata in uno spazio temporale diverso, in una bolla. Un momento di bellezza.
Mi sono commossa due volte.
Una quando dici dei due modi che hanno gli esseri umani per decidere cosa farne della vita. Io mi sento dentro al primo modo. Sempre alla ricerca. Mi ha toccata.
L’altra sui ringraziamenti.

La parte che più intensamente mi ha presa è quella nello studio di Savarese.
È di una bellezza incredibile, non solo quello che c’è scritto dentro, ma la storia di quella fotografia, della lettura al contrario. del catturare quell’attimo di eternità.
Io amo fare fotografie, ma non sono un tecnico, non c’ho nemmeno la pazienza di studiare come migliorare i miei scatti. Io le faccio d’istinto. Mi dico turista del quotidiano.
Mi fermo attratta da una cosa banale e ho il raptus di catturarla. Poi nell’era digitale compulsivamente faccio scatti e scatti. Ma quando rivedo le foto, dopo, mi rendo conto che la prima ha dentro qualcosa di speciale. Le altre sono una forzatura, quando non una noiosa imitazione.

Nella bolla temporale in cui sono vissuta per alcune ore oggi, le tue parole mi hanno rimandato a tante mie letture amate, un po’ come nel sogno del libro. Parola chiamava parola.
C’era Nietzsche e l’eterno ritorno. La leggerezza calviniana. Il labirinto di Borges. La bella giornata di La Capria. C’era la mia amata Alice ..io cammino per la vita e mi sento così, nel paese delle meraviglie, curiosa, e protesa ad accogliere quello che mi succede. Ho trovato il mio elemento, l’acqua. Mi fu detto .. sei acqua, ti adatti e poi fluisci, ma hai anche la forza dell’acqua. Ho trovato la mia ricerca della bellezza..quel senso anche quasi del dovere della bellezza, anche nell’architettura (io non sono architetto, ma quando studiavo Scienze Politiche venivo nelle pause dentro la facoltà di architettura a passare tempo e a respirare quell’aria.

Ho curiosità di quel professore di cui dici. Chi è? Magari lo conosco. Ho due fratelli architetti.
Quello che mi porterò dentro di queste tue pagine il tempo me lo dirà, magari fermandomi a vedere due colombi, o un gioiello di corallo, o un oggetto e intanto penso alla sua storia, o mentre faccio una foto, o mentre provo a dire che cosa è l’amore, o provo a capire cosa è.
Un’altra cosa ancora devo dirti adesso.
So di quello spazio che si crea quando sta per succedere una cosa che ricorderò. Così come quando Savarese prende quel libro o anche come quando il professore tiene tra le mani quell’orologio o come quando sta scrivendo quella poesia a Miriam. (tra l’altro Miriam era lo pseudonimo di mia nonna, nel suo diario ci sono le dediche anche di Scarfoglio e della Serao .. vedi tra i miei album “caro diario”. Prima ci sono andata su e poi sono venuta sul tuo profilo e non so se facebook ha fatto di suo un’associazione.. tra te e quest'album. Nel caso...è stato involontario). comunque, anche questo ho trovato.
Ma se continuo a scrivere escono mille rimandi alla mia vita e al mio sentire.
Ora ti lascio, meno male che mio marito oltre ad amare l’antiquariato, ama anche cucinare…il pranzo della domenica è salvo! ..ora faccio come il professore con la barzelletta vedi?
Ti abbraccio.
Grazia

venerdì 15 giugno 2012

Il TUFO, la nostra intima MATERIA. I CAMPI FLEGREI alle origini di Napoli Il mio intervento alla presentazione del libro di Francesco Escalona Giallo


Il TUFO La nostra intima Materia
di Mario Scippa

Sono felice di partecipare a questa serata dedicata a Miseno e ai Campi Flegrei.Luogo di storia e di Mito. Terra amata e martoriata. Per la forza evocativa degli antichi miti e la ricchezza storica e naturalistica, che contaddistingue questo territorio, per la bellezza che emerge dal sottosuolo, in tutte le sue forme, immateriali e materiali, dall'energia pura che emergendo attraversa ogni cosa, fino alla materia lavorata dagli antichi che in qualsiasi punto della terra andiamo a scavare troviamo una testimonianza, per tutte queste cose più tante altre è sempre poca ogni nuova parola che si spende per questo territorio straordinario che è custode di tutta la nostra memoria.
E' un piacere ed un onore poterne parlare insieme all'artista Vincenzo Aulitto, autore delle opere dal titolo Miseno, qui esposte, e con l'architetto Francesco Escalona, autore del bel libro Giallo Tufo, che ho avuto l'onore di presentare già nel mio salotto culturale Antichità Scippa arte&cultura
MisenoIl nome di Miseno abbiamo visto, nella splendida interpretazione che ci ha regalato la brava Adele Pandolfi, che tutti voi conoscete, accompagnata dal maestro Giuseppe Causa, si connette al mito dell'Eneide di Virgilio.
Adele Pandolfi
(ph. Simonetta Volpe)
Giuseppe Causa

Miseno era il trombettiere di Enea, che avendo sfidato Tritone nel suono della tromba, era stato da questi precipitato in mare dove era miseramente annegato.
Enea, trovato il suo corpo gettato dalle onde sulla spiaggia, ne appronta il rogo, quindi lo seppellisce sotto un immenso tumulo di terra (il Capo Miseno per l'appunto), quasi una grandiosa tomba a perenne memoria dell'eroico compagno.

Nell'opera di Vincenzo Autillo la rappresentazione di Miseno è un riferimento costante, è una manifestazione totemica che sembra essere per l'artista un orientameto spaziale e, sopratutto temporale in quel territorio mentale oltre I confini del sensibile.
Nella sua opera si legge un atavico attaccamento alla sua terra, alla sue origini, prima che nella dimensione materiale in quella del mito e del simbolo, ovvero nella vera dimensione umana, quella che ci differenzia da tutti gli altri animali: la dimensione della memoria e della necessità tipicamente umana di poterla trasmettere e comunicare: la dimensione della cultura.
Vincenzo Aulitto
(ph. Simonetta Volpe)

Oltre all'arte uno degli strumenti per eccellenza per la trasmissine della memoria e, quindi, della cultura e che tante volte ci permette di andare oltre ciò che appare scontato è il libro.
Stasera insieme alle straordinari opere di Vincenzo Aulitto , dal forte valore simbolico ed evocativo presentiamo un libro altrentanto carico di potere evocativo di immagini:
Giallo Tufo, di Francesco Escalona.

In genere per me leggere un libro è sempre una meravigliosa avventura. E' una porta che si apre verso inattesi universi.
Universi formati da quelle immagini che scatiriscono dalle parole dell'autore, che si combinano con quelle altre immagini sedimentate dentro di noi che proprio quelle parole riportano a galla dall'oceano mare della nostra memoria.
Una volta scrissi un piccolo testo su questo tema, era l'immagine di libri custoditi in uno spazio, forse una biblioteca, e ogni libro era una porta, aprendo una delle quali si presentavano universi diversi e altrettanto porte da aprire e così via, si intitolava

Stanza.

Da dov'era partita, seguendo la linea
fino all'infinito, arrivò.
Cerchio.
Sacro tempio. Inviolabile fortezza,
denti aguzzi di un affamato coccodrillo.

Muri, stanze. Dov'è la parola?
La porta!
Il suo passato perso, tra ventiquattro porte
La mano incerta provò. Nuova si aprì
davanti a lei una stanza.

Orizzonte bloccato, linea spezzata.
Poi ancora porte, ventiquattro.
Al centro un violino,
silenzioso equilibrio col fuoco,
il suo cielo la volta, vela senza centro.

Cercatrice del mistero nel cerchio,
bloccata.
Di notte, antichi Muratori,
riflessi negli occhi di una scimmia,
innalzavano muri,
di perché.


Il pensiero, l'idea, è come una linea nera che traccia un percorso sulla materia gialla



Giallo Tufo. Di Francesco Escalona è stato per me una di quelle porte da aprire. Un libro saturo di immagini, ricco di stimoli per chi vuole viaggiare e conoscere quel territorio fisico, storico e mitologico, in cui si svolge la storia, ma anche stimolo, per chi come noi, che appartenendo a questa terra abbiamo sedimentato nella nostra memoria tante immagini, vissute o raccontate. Un libro come una porta valicando la quale ci si può perdere nel proprio labirinto della memoria incontrando all'interno altre porte ancora da aprire.
Francesco Escalona
(ph. Simonetta Volpe)

Giallo Tufo. Oltre a narrare una storia , l'autore ci narra dei Campi Flegrei, luogo straordinario, dove si materializzano i simboli universali della vita espressi nei quattro elementi fondamentali: Acqua, Fuoco, Aria e Terra.
I Campi Flegrei Sono I luoghi delle origini di Napoli I luoghi delle nostre origini.

Mario Scippa e Vincenzo Aulitto con le loro mani su: LA MIA TERRA

Ora vi voglio raccontare tre immagini che sono salite a galla dalla mia memoria leggendo il libro:
Sono immagini di tre momenti della mia vita che fanno riferimento alla forma dell’architettura tagliata nella roccia che ritroviamo nelle cavità, nella città di sotto, e che a mio avviso è il primo dei segni tangibili che rimandano le origioni di Napoli al territorio Flegreo.
Pensate all’antro della Sibilla, quella sezione trapezoidale è stata il modello per tutte le cavità sotterranee di Napoli, da cui è stato ricavato la materia per costruire la città, e allo stesso tempo degli ambienti di una bellezza straordinaria..

La prima immagine della città di sotto si riferisce a quando ero molto piccolo e risiede nel campo delle parole, nei racconti ascoltati dai miei parenti vecchi.
Io sono originario di un vicolo del rione Sanità un pezzo della città ricco di storia di simboli.
Da quei racconti, anche se non li ho mai visti, ho sedimentato dentro di me le immagini dei cosiddetti “ricoveri”.
Quelle enormi cavità sotto ogni palazzo del vicolo, spesso comunicanti tra loro. Ne sentivo parlare da bambino di questi luoghi, dove in tempo di guerra la popolazione si riparava dai bombardamenti.
Ascoltavo i racconti dei vecchi di storie vissute o semplicemente inventate in questi luoghi.
Nell’immaginario di bambino incantato, quei luoghi erano per me luoghi magici, li vedevo nella mia mente quasi come se fossero enormi basiliche scavate nella collina, dove vivevano personaggi strani e si svolgevano chissà quali riti.
Il “ricovero” sotto al mio palazzo, del vico Lammatari 12, scendeva a due livelli sotto, e sotto si diceva che scorreva un corso d’acqua ed era addirittura ormeggiata una barca. I vecchi dicevano che quel corso d’acqua arrivava fino a Santa Lucia, al mare, “for’ a Caracciolo” (ricordatevi questa espressione: For' a Caracciolo). Io immaginavo che la sotto vivesse un omino traghettatore, una sorta di Caronte tassista che non aveva mai visto la luce del sole.

La seconda immagine di luoghi analoghi è dentro di me dalle prime esperienze di ragazzino che vuole scoprire il mondo.
Ricordo un'altra cavità, :“o’ cavone aret’o’ Mont’’e Cristallini” (ricordatevi pure quest'altra espressione a ret' o mont).
Era una grandissima cavità scavata sotto la collina di Capodimonte, sul lato Nord-Est del quartiere Stella, dove da ragazzino mi inoltravo insieme ai miei amici. Attraverso dei sentieri sotterranei potevamo raggiungere un cunicolo in salita quasi verticale che ci portava direttamente nel Bosco Di Capodimonte.
Ricordo la luce che filtrava da quel cunicolo, da lontano sembrava un faro che proiettava il fascio sulla parete, e tutta la cavità era illuminata da quella luce riflessa.
Ricordo che a ridosso della bocca di apertura di questo cavone, c’erano tante piccole aperture, tutte rifinite con infissi colorati e pareti piastrellate, e improbabili terrazzini si affacciavano sullo slargo e ognuna con una propria scala che sembrava scavata direttamente nella montagna. Erano case, scavate sulla collina di tufo.
In una di quelle case abitava un mio caro amico, Gerry o’ Nirone (perché aveva la pelle di un colorito scuro, come un marocchino).
La sua casa era costituita da due piccoli ambienti, uno dentro l’altro, e l’unica apertura era quella da dove entravo, quel foro nella montagna con il terrazzino davanti.
Ricordo una particolare sensazione che avvertivo ogni volta che l’andavo a trovare.
Una sensazione scaturita dall’odore della pietra: un odore acre, forte, riconoscibile tra tanti: era l’odore del tufo.

La terza immagine, sempre degli stessi luoghi, è quella scaturita della consapevolezza.
Crescendo, un po' per studio, un po' per curiosità personale, sono andato a ricercare quei posti, e mi sono accorto che questi luoghi della materia, nati per una questione pratica (reperire materiale da costruzione) così come sono stati realizzati, nel corso dei secoli, per la loro forma, la luce, il taglio delle pareti, per quei grandi spazi che si potevano raggiungere solo da piccoli cunicoli e che si aprivano davanti agli occhi improvvisamente, avevano quel carattere che io immaginavo da sempre.
Queste cavità, oltre ad essere degli spazi fisici di una bellezza straordinaria, sono anche carichi di una straordinaria energia, un particolare “genius loci” tali da far vivere a chi ci entra una dimensione magica, spirituale.

Purtroppo, negli ultimi decenni questi luoghi sono stati abbandonati a se stessi, usati come luoghi di risulta, dai malavitosi, come tutte quelle cavità del vallone dello Scudillo e delle Fontanelle, dove all’interno delle quali, per decenni, hanno fatto da padroni, svolgendo i loro loschi affari e nascondendo casse di sigarette, auto rubate, armi, ecc.
Poi, dopo lunghi dibattiti promossi da intellettuali, ambientalisti, urbanisti ecc, negli ultimi le Amministrazioni hanno incominciato a pensare che potevano essere considerati delle risorse. Molti di questi luoghi effettivamente sono stati riconsiderati ma il più delle volte sono state politiche di riqualificazione mosse da una malacultura vestita di nuovo, che con la scusa della rivalutazione e del riutilizzo per il bene della collettività, il vero obiettivo è sembrato essere quello con fini speculativi, sacrificando, oltraggiando e mortificando, dal mio punto di vista ancor di più, la bellezza e il “genius loci” di questi luoghi.

Un esempio di quello che sto dicendo, sono le cavità di Pizzofalcone. L’ultimo vanto di Napoli, uno spazio straordinario e di alto potere evocativo, dove la sensazione che si provava entrando era la stessa che si prova entrando in una spettacolare cattedrale Gotica. La luce che filtrava all’interno era meravigliosa, in particolare al pomeriggio, quando un fascio cadeva prepotentemente dall’alto colorando tutto l'ambiente di tufo di una magico giallo dorato. In virtù della necessità e del riutilizzo si è completamente distrutta questa meraviglia. Venduta ad una società privata, oggi è un parcheggio a 5 stelle. Complici dei politici, voglio credere alla loro buona fede, poverini siccome non ci arrivano hanno pensato di fare cassa rispondendo alla domanda di riutilizzo di questi spazi, a mio avviso, sono anche e soprattutto gli intellettuali, gli storici , le sovrintendenze e tutti gli organi competenti e che hanno tutti gli strumenti sensibili per misurare la preziosa bellezza di un luogo: nessuno di loro ha fatto niente affinché non si compisse questo scempio.

“[...]al giorno d’oggi, (dice Francesco Escalona nel suo Giallo Tufo) comunque, e in questo ha proprio ragione Margherita, sopratutto da queste parti, si sottovaluta troppo quanto possa contare l’aspetto culturale e quello del senso di appartenenza di un popolo ad un passato nobile, per condividere e realizzare grande idee e grandi progetti; programmi politici ambiziosi. Per sfuggire ad egoismi dilaganti e ad una incultura imperante tesa solo al raggiungimento di fini personali e di corto respiro[...]”

Questa frase la faccio mia perchè spiega esattamente quello che penso e non avrei trovato migliori parole per spiegare l’incultura imperante che regola i processi decisionali nella trasformazione dei territori, ed è una frase che mi ha fatto venire in mente, subito, appena la leggevo nel libro, un’altra frase di un’intervista a Massimo Cacciari da Claudio Velardi, in Città Porosa. Era il 1992 ed è attualissima:

“La mia città, il mio paese non può essere massacrato da voi, camorristi o dissennati politici che siate! Il mio paese ha questa memoria, ha queste straordinarie potenzialità, ha questo destino, ha questo significato simbolico, e voi non potete e non dovete impadronirvene…. VADE RETRO SATANA, non potete massacrarmi Venezia, non potete massacrarmi Napoli!”.

La povertà culturale di chi ci governa, che sembra non voler capire la vera potenzialità di Napoli, alla pari della speculazione dei malviventi che per anni hanno usato le cave, è quella di considerare questi luoghi non tanto per le loro intrinseche potenzialità legate alla memoria, individuale e collettiva, da salvaguardare e custodire, ma come luoghi di risulta, vuoti da riempire.
Una povertà culturale che solo un vero accorpamento tra tutte le forze culturali, anche politicamente trasversali, potrebbe e dovrebbe combattere .

Poco fa, e concludo, citando alcuni luoghi di Napoli ho usato espressioni (che vi ho pregato di ricordare) nello stesso modo che comunemente usiamo noi napoletani per definire la toponomastica, e che esprimono un rapporto corporale col territorio: for', ncopp, miezz, abbascio'...
Nella individuazione dei luoghi noi napoletani usiamo sempre un rapporto corporale col territorio proprio come un bambino con la sua mamma lo usa per il suo orientamento nello spazio.

Vincenzo Aulitto LA MIA TERRA


Questo nostro rapporto corporale con la nostra terra ce l'ha ricordato anche Vincenzo Aulitto con quella sua esigenza di rappresentare il rapporto corpo-terra con il contatto fisico: come quelle mani che toccano, affondano, quasi a voler ripercorrere un percorso ancestrale a ritroso nel tempo in un grembo materno, come voler ricordarci che nei campi Flegrei così come a Napoli, questi luoghi del tufo sono i luoghi della nostra più intima materia.

La parola Materia ha come radice etimologica Mater, ovvero la stessa radice di Madre.
Profanare questi luoghi con progetti aberranti che li snaturano è come profanare la Madre di ognuno di noi.

Pozzuoli 6Giugno2012

M.S.