venerdì 15 giugno 2012

Il TUFO, la nostra intima MATERIA. I CAMPI FLEGREI alle origini di Napoli Il mio intervento alla presentazione del libro di Francesco Escalona Giallo


Il TUFO La nostra intima Materia
di Mario Scippa

Sono felice di partecipare a questa serata dedicata a Miseno e ai Campi Flegrei.Luogo di storia e di Mito. Terra amata e martoriata. Per la forza evocativa degli antichi miti e la ricchezza storica e naturalistica, che contaddistingue questo territorio, per la bellezza che emerge dal sottosuolo, in tutte le sue forme, immateriali e materiali, dall'energia pura che emergendo attraversa ogni cosa, fino alla materia lavorata dagli antichi che in qualsiasi punto della terra andiamo a scavare troviamo una testimonianza, per tutte queste cose più tante altre è sempre poca ogni nuova parola che si spende per questo territorio straordinario che è custode di tutta la nostra memoria.
E' un piacere ed un onore poterne parlare insieme all'artista Vincenzo Aulitto, autore delle opere dal titolo Miseno, qui esposte, e con l'architetto Francesco Escalona, autore del bel libro Giallo Tufo, che ho avuto l'onore di presentare già nel mio salotto culturale Antichità Scippa arte&cultura
MisenoIl nome di Miseno abbiamo visto, nella splendida interpretazione che ci ha regalato la brava Adele Pandolfi, che tutti voi conoscete, accompagnata dal maestro Giuseppe Causa, si connette al mito dell'Eneide di Virgilio.
Adele Pandolfi
(ph. Simonetta Volpe)
Giuseppe Causa

Miseno era il trombettiere di Enea, che avendo sfidato Tritone nel suono della tromba, era stato da questi precipitato in mare dove era miseramente annegato.
Enea, trovato il suo corpo gettato dalle onde sulla spiaggia, ne appronta il rogo, quindi lo seppellisce sotto un immenso tumulo di terra (il Capo Miseno per l'appunto), quasi una grandiosa tomba a perenne memoria dell'eroico compagno.

Nell'opera di Vincenzo Autillo la rappresentazione di Miseno è un riferimento costante, è una manifestazione totemica che sembra essere per l'artista un orientameto spaziale e, sopratutto temporale in quel territorio mentale oltre I confini del sensibile.
Nella sua opera si legge un atavico attaccamento alla sua terra, alla sue origini, prima che nella dimensione materiale in quella del mito e del simbolo, ovvero nella vera dimensione umana, quella che ci differenzia da tutti gli altri animali: la dimensione della memoria e della necessità tipicamente umana di poterla trasmettere e comunicare: la dimensione della cultura.
Vincenzo Aulitto
(ph. Simonetta Volpe)

Oltre all'arte uno degli strumenti per eccellenza per la trasmissine della memoria e, quindi, della cultura e che tante volte ci permette di andare oltre ciò che appare scontato è il libro.
Stasera insieme alle straordinari opere di Vincenzo Aulitto , dal forte valore simbolico ed evocativo presentiamo un libro altrentanto carico di potere evocativo di immagini:
Giallo Tufo, di Francesco Escalona.

In genere per me leggere un libro è sempre una meravigliosa avventura. E' una porta che si apre verso inattesi universi.
Universi formati da quelle immagini che scatiriscono dalle parole dell'autore, che si combinano con quelle altre immagini sedimentate dentro di noi che proprio quelle parole riportano a galla dall'oceano mare della nostra memoria.
Una volta scrissi un piccolo testo su questo tema, era l'immagine di libri custoditi in uno spazio, forse una biblioteca, e ogni libro era una porta, aprendo una delle quali si presentavano universi diversi e altrettanto porte da aprire e così via, si intitolava

Stanza.

Da dov'era partita, seguendo la linea
fino all'infinito, arrivò.
Cerchio.
Sacro tempio. Inviolabile fortezza,
denti aguzzi di un affamato coccodrillo.

Muri, stanze. Dov'è la parola?
La porta!
Il suo passato perso, tra ventiquattro porte
La mano incerta provò. Nuova si aprì
davanti a lei una stanza.

Orizzonte bloccato, linea spezzata.
Poi ancora porte, ventiquattro.
Al centro un violino,
silenzioso equilibrio col fuoco,
il suo cielo la volta, vela senza centro.

Cercatrice del mistero nel cerchio,
bloccata.
Di notte, antichi Muratori,
riflessi negli occhi di una scimmia,
innalzavano muri,
di perché.


Il pensiero, l'idea, è come una linea nera che traccia un percorso sulla materia gialla



Giallo Tufo. Di Francesco Escalona è stato per me una di quelle porte da aprire. Un libro saturo di immagini, ricco di stimoli per chi vuole viaggiare e conoscere quel territorio fisico, storico e mitologico, in cui si svolge la storia, ma anche stimolo, per chi come noi, che appartenendo a questa terra abbiamo sedimentato nella nostra memoria tante immagini, vissute o raccontate. Un libro come una porta valicando la quale ci si può perdere nel proprio labirinto della memoria incontrando all'interno altre porte ancora da aprire.
Francesco Escalona
(ph. Simonetta Volpe)

Giallo Tufo. Oltre a narrare una storia , l'autore ci narra dei Campi Flegrei, luogo straordinario, dove si materializzano i simboli universali della vita espressi nei quattro elementi fondamentali: Acqua, Fuoco, Aria e Terra.
I Campi Flegrei Sono I luoghi delle origini di Napoli I luoghi delle nostre origini.

Mario Scippa e Vincenzo Aulitto con le loro mani su: LA MIA TERRA

Ora vi voglio raccontare tre immagini che sono salite a galla dalla mia memoria leggendo il libro:
Sono immagini di tre momenti della mia vita che fanno riferimento alla forma dell’architettura tagliata nella roccia che ritroviamo nelle cavità, nella città di sotto, e che a mio avviso è il primo dei segni tangibili che rimandano le origioni di Napoli al territorio Flegreo.
Pensate all’antro della Sibilla, quella sezione trapezoidale è stata il modello per tutte le cavità sotterranee di Napoli, da cui è stato ricavato la materia per costruire la città, e allo stesso tempo degli ambienti di una bellezza straordinaria..

La prima immagine della città di sotto si riferisce a quando ero molto piccolo e risiede nel campo delle parole, nei racconti ascoltati dai miei parenti vecchi.
Io sono originario di un vicolo del rione Sanità un pezzo della città ricco di storia di simboli.
Da quei racconti, anche se non li ho mai visti, ho sedimentato dentro di me le immagini dei cosiddetti “ricoveri”.
Quelle enormi cavità sotto ogni palazzo del vicolo, spesso comunicanti tra loro. Ne sentivo parlare da bambino di questi luoghi, dove in tempo di guerra la popolazione si riparava dai bombardamenti.
Ascoltavo i racconti dei vecchi di storie vissute o semplicemente inventate in questi luoghi.
Nell’immaginario di bambino incantato, quei luoghi erano per me luoghi magici, li vedevo nella mia mente quasi come se fossero enormi basiliche scavate nella collina, dove vivevano personaggi strani e si svolgevano chissà quali riti.
Il “ricovero” sotto al mio palazzo, del vico Lammatari 12, scendeva a due livelli sotto, e sotto si diceva che scorreva un corso d’acqua ed era addirittura ormeggiata una barca. I vecchi dicevano che quel corso d’acqua arrivava fino a Santa Lucia, al mare, “for’ a Caracciolo” (ricordatevi questa espressione: For' a Caracciolo). Io immaginavo che la sotto vivesse un omino traghettatore, una sorta di Caronte tassista che non aveva mai visto la luce del sole.

La seconda immagine di luoghi analoghi è dentro di me dalle prime esperienze di ragazzino che vuole scoprire il mondo.
Ricordo un'altra cavità, :“o’ cavone aret’o’ Mont’’e Cristallini” (ricordatevi pure quest'altra espressione a ret' o mont).
Era una grandissima cavità scavata sotto la collina di Capodimonte, sul lato Nord-Est del quartiere Stella, dove da ragazzino mi inoltravo insieme ai miei amici. Attraverso dei sentieri sotterranei potevamo raggiungere un cunicolo in salita quasi verticale che ci portava direttamente nel Bosco Di Capodimonte.
Ricordo la luce che filtrava da quel cunicolo, da lontano sembrava un faro che proiettava il fascio sulla parete, e tutta la cavità era illuminata da quella luce riflessa.
Ricordo che a ridosso della bocca di apertura di questo cavone, c’erano tante piccole aperture, tutte rifinite con infissi colorati e pareti piastrellate, e improbabili terrazzini si affacciavano sullo slargo e ognuna con una propria scala che sembrava scavata direttamente nella montagna. Erano case, scavate sulla collina di tufo.
In una di quelle case abitava un mio caro amico, Gerry o’ Nirone (perché aveva la pelle di un colorito scuro, come un marocchino).
La sua casa era costituita da due piccoli ambienti, uno dentro l’altro, e l’unica apertura era quella da dove entravo, quel foro nella montagna con il terrazzino davanti.
Ricordo una particolare sensazione che avvertivo ogni volta che l’andavo a trovare.
Una sensazione scaturita dall’odore della pietra: un odore acre, forte, riconoscibile tra tanti: era l’odore del tufo.

La terza immagine, sempre degli stessi luoghi, è quella scaturita della consapevolezza.
Crescendo, un po' per studio, un po' per curiosità personale, sono andato a ricercare quei posti, e mi sono accorto che questi luoghi della materia, nati per una questione pratica (reperire materiale da costruzione) così come sono stati realizzati, nel corso dei secoli, per la loro forma, la luce, il taglio delle pareti, per quei grandi spazi che si potevano raggiungere solo da piccoli cunicoli e che si aprivano davanti agli occhi improvvisamente, avevano quel carattere che io immaginavo da sempre.
Queste cavità, oltre ad essere degli spazi fisici di una bellezza straordinaria, sono anche carichi di una straordinaria energia, un particolare “genius loci” tali da far vivere a chi ci entra una dimensione magica, spirituale.

Purtroppo, negli ultimi decenni questi luoghi sono stati abbandonati a se stessi, usati come luoghi di risulta, dai malavitosi, come tutte quelle cavità del vallone dello Scudillo e delle Fontanelle, dove all’interno delle quali, per decenni, hanno fatto da padroni, svolgendo i loro loschi affari e nascondendo casse di sigarette, auto rubate, armi, ecc.
Poi, dopo lunghi dibattiti promossi da intellettuali, ambientalisti, urbanisti ecc, negli ultimi le Amministrazioni hanno incominciato a pensare che potevano essere considerati delle risorse. Molti di questi luoghi effettivamente sono stati riconsiderati ma il più delle volte sono state politiche di riqualificazione mosse da una malacultura vestita di nuovo, che con la scusa della rivalutazione e del riutilizzo per il bene della collettività, il vero obiettivo è sembrato essere quello con fini speculativi, sacrificando, oltraggiando e mortificando, dal mio punto di vista ancor di più, la bellezza e il “genius loci” di questi luoghi.

Un esempio di quello che sto dicendo, sono le cavità di Pizzofalcone. L’ultimo vanto di Napoli, uno spazio straordinario e di alto potere evocativo, dove la sensazione che si provava entrando era la stessa che si prova entrando in una spettacolare cattedrale Gotica. La luce che filtrava all’interno era meravigliosa, in particolare al pomeriggio, quando un fascio cadeva prepotentemente dall’alto colorando tutto l'ambiente di tufo di una magico giallo dorato. In virtù della necessità e del riutilizzo si è completamente distrutta questa meraviglia. Venduta ad una società privata, oggi è un parcheggio a 5 stelle. Complici dei politici, voglio credere alla loro buona fede, poverini siccome non ci arrivano hanno pensato di fare cassa rispondendo alla domanda di riutilizzo di questi spazi, a mio avviso, sono anche e soprattutto gli intellettuali, gli storici , le sovrintendenze e tutti gli organi competenti e che hanno tutti gli strumenti sensibili per misurare la preziosa bellezza di un luogo: nessuno di loro ha fatto niente affinché non si compisse questo scempio.

“[...]al giorno d’oggi, (dice Francesco Escalona nel suo Giallo Tufo) comunque, e in questo ha proprio ragione Margherita, sopratutto da queste parti, si sottovaluta troppo quanto possa contare l’aspetto culturale e quello del senso di appartenenza di un popolo ad un passato nobile, per condividere e realizzare grande idee e grandi progetti; programmi politici ambiziosi. Per sfuggire ad egoismi dilaganti e ad una incultura imperante tesa solo al raggiungimento di fini personali e di corto respiro[...]”

Questa frase la faccio mia perchè spiega esattamente quello che penso e non avrei trovato migliori parole per spiegare l’incultura imperante che regola i processi decisionali nella trasformazione dei territori, ed è una frase che mi ha fatto venire in mente, subito, appena la leggevo nel libro, un’altra frase di un’intervista a Massimo Cacciari da Claudio Velardi, in Città Porosa. Era il 1992 ed è attualissima:

“La mia città, il mio paese non può essere massacrato da voi, camorristi o dissennati politici che siate! Il mio paese ha questa memoria, ha queste straordinarie potenzialità, ha questo destino, ha questo significato simbolico, e voi non potete e non dovete impadronirvene…. VADE RETRO SATANA, non potete massacrarmi Venezia, non potete massacrarmi Napoli!”.

La povertà culturale di chi ci governa, che sembra non voler capire la vera potenzialità di Napoli, alla pari della speculazione dei malviventi che per anni hanno usato le cave, è quella di considerare questi luoghi non tanto per le loro intrinseche potenzialità legate alla memoria, individuale e collettiva, da salvaguardare e custodire, ma come luoghi di risulta, vuoti da riempire.
Una povertà culturale che solo un vero accorpamento tra tutte le forze culturali, anche politicamente trasversali, potrebbe e dovrebbe combattere .

Poco fa, e concludo, citando alcuni luoghi di Napoli ho usato espressioni (che vi ho pregato di ricordare) nello stesso modo che comunemente usiamo noi napoletani per definire la toponomastica, e che esprimono un rapporto corporale col territorio: for', ncopp, miezz, abbascio'...
Nella individuazione dei luoghi noi napoletani usiamo sempre un rapporto corporale col territorio proprio come un bambino con la sua mamma lo usa per il suo orientamento nello spazio.

Vincenzo Aulitto LA MIA TERRA


Questo nostro rapporto corporale con la nostra terra ce l'ha ricordato anche Vincenzo Aulitto con quella sua esigenza di rappresentare il rapporto corpo-terra con il contatto fisico: come quelle mani che toccano, affondano, quasi a voler ripercorrere un percorso ancestrale a ritroso nel tempo in un grembo materno, come voler ricordarci che nei campi Flegrei così come a Napoli, questi luoghi del tufo sono i luoghi della nostra più intima materia.

La parola Materia ha come radice etimologica Mater, ovvero la stessa radice di Madre.
Profanare questi luoghi con progetti aberranti che li snaturano è come profanare la Madre di ognuno di noi.

Pozzuoli 6Giugno2012

M.S.

E’ la bellezza che deve salvarci o noi salvare la bellezza?

La fotografia, la poesia, l’arte sono strumenti che ci permettono di andare oltre i confini del sensibile, là dove è possibile rintracciare la bellezza disse Masullo.
La bellezza.
La bellezza contiene in sé una forza salvifica, disse Dostojeski, l’unica vera forza che ci può salvare da questo abisso nel quale negli ultimi
anni siamo precipitati.
La bellezza, ci ricorda il grande De Luca, è quella energia potente che vincendo la forza di gravità, partendo dal centro della terra, si espande in tutti i punti dell’universo attraversando ogni cosa.

Il fotografo, il poeta, l’artista in genere, sono tra quelle persone che hanno il dovere morale di rintracciarla e rivelarla, perché sono coloro i quali riescono ad isolare un frammento di spazio e di tempo da continuo divenire.
A volte, questo frammento viene isolato per caso.
Il caso, che a volte ci appare come quell’attimo di ordine nel caos dell’universo che è intorno a noi, ovvero la manifestazione di quella energia di cui parlano De Luca, Dostojeski, Masullo e altri grandi pensatori.
La bellezza, quella energia che attraversa la materia, prendendone la sua forma come fa l’acqua, e che, viaggiando nel tempo e nello spazio, viene rivelata dal poeta, dal fotografo, dall’artista, spesso per caso con un’altra potente energia: la luce.

Bellezza, energia, forma, materia, massa, luce, tempo.

Tutti elementi che l’artista, ogni artista, mette in relazione tra loro per costruire una forma.
Gli stessi identici elementi alla base del pensiero di un grande pensatore del secolo scorso, che è stato anche colui che ha completamente ribaltato tutte le teorie della misurazione delle spazio e del tempo e che sulle sue riflessioni sulla materia, sull’energia, sul tempo, sullo spazio, sulla luce, sono basate tutte le speculazioni moderne nella scienza, nella fisica e nel pensiero filosofico. Parlo di Einstein.
Il quale arriva alla sua famosa formula mettendo in relazione gli stessi identici elementi che mettono in relazione gli artist: la materia energia con la massa delle cose attraverso la luce.
E = mc2
Questa formula si fonda sul concetto che un corpo a riposo possiede la capacità di liberare energia trasmutando tutta la sua massa o una parte in radiazione elettromagnetica: questo è il nuovo paradigma einsteniano, mai concepito prima del 1905 da altri fisici, che si contrappone con il paradigma newtoniano (secondo il quale, poiché il tempo è separato dallo spazio, in quanto assoluto, la cinematica è completamente separata dalla dinamica, e perciò un corpo libero fermo non possiede alcuna energia che possa trasformarsi in energia cinetica di irraggiamento).

I fotografi, come i poeti, per rivelare la bellezza, mettono anche loro in relazione gli stessi elementi, forse hanno nel loro DNA qualcosa di simile a ciò che aveva Einstein che ha mutato completamente il modo di misurare lo spazio e il tempo. Forse Einstein voleva solo trovare una formula matematica per misurare la bellezza.
Forse.

Mario Scippa

pubblicato su Lo Speaker

UNA CONVERSAZIONE CON MARIO SCIPPA. di TONIA FERRARO

Come è nato il salotto?

Sono architetto e sono stato sempre attento alla forma, alla ricerca della bellezza; questo era il laboratorio di mio padre: qui faceva intagli in legno e restaurava mobili. E’ stato, praticamente, l’ultimo intagliatore di Napoli. Il salotto, forse, è nato col mio primo romanzo,
Il salotto, forse, è nato col mio primo romanzo, ‘L’antiquario e il professore’: volevo raccontare un incontro tra il mondo dell’antiquariato e quello della parola. I due personaggi, lontanissimi per modi di essere, l’uno legato al pesante mondo degli oggetti, l’altro, invece, a quello leggero delle idee, perseguivano entrambi la stessa costante ricerca della bellezza e la volontà di trasmettere emozioni. A livello metafisico, dunque, l’antiquario e il professore vivevano la stessa vita, e si sono incontrati in questo non tempo, in questo non luogo, che io definisco zona di confine. Così, ho sentito l’esigenza di trasporre spazialmente l’esperienza letteraria; all’interno di una bottega in cui si vendono oggetti antichi, ho fatto entrare la parola scritta, cominciando a presentare libri di narratori prevalentemente napoletani, ma non solo”.ella bellezza; questo era il laboratorio di mio padre: qui faceva intagli in legno e restaurava mobili. E’ stato, praticamente, l’ultimo

Come si racconta una città come Napoli?

“Da ragazzo mi interessavo di fotografia: cercavo di raccontare la città, senza cadere nello stereotipo. Tiravo fuori uno dei tasselli da aggiungere alla narrazione iniziata duemila anni fa con la colonizzazione greca, e che continua ancora oggi, perché Napoli è una città non conclusa. Il filosofo Walter Benjamin disse che Napoli è una città porosa, una città confine, dove tutto passa, e qualcosa rimane. E’ in continuo divenire: le prime migrazioni di popoli sono passate per Napoli. Il napoletano è un misto di sangue, una miscela di normanno, greco, arabo … basta fare una passeggiata per i quartieri di Napoli per incontrare fototipi diversissimi, ma che parlano la stessa lingua, il napoletano, che a sua volta è un miscuglio di linguaggi. La città non è fatta da edifici e spazi urbani ma dagli uomini e dalle donne, e la sua espressione è la comunicazione attraverso i vari mezzi. Purtroppo, il linguaggio, oggi, sta subendo trasformazioni radicali, mutazioni dovute al passaggio a Google; come osserva Baricco, il monosillabo ‘link’ mette in relazione universi diversi. Napoli, colonia cumana e poi greca: è da dove veniamo, abbiamo origini mitologiche. Quando arrivarono i primi greci, i Micenei, sbarcarono prima ad Ischia; si avvicinarono poi, ma di poco, raggiungendo l’isolotto di Vivara vicino Procida, e di lì guardarono per tanti anni la costa, che vedevano come materializzazione di tutte le loro fantasie: il Vesuvio, il fumo della solfatara, i delfini che saltavano dalle acque del mare, la natura rigogliosa … Per loro era il confine del mondo. La mia ambizione è raccontare il centro antico, il cuore della città, per capire che cos’è Napoli e come sia avvenuta la sua evoluzione morfologica e antropologica. Un’evoluzione che si è mossa nei vicoli: nei palazzi, dai bassi risaliva fino ai piani alti. La stratificazione architettonica diventava quasi una stratificazione sociale”.

Cos’è il confine?

“Nei confini non c’è niente di concluso, tutto è in divenire. L’idea di zona di margine, di confine, mi ‘catturò’ nel ’92, quando misi insieme sei fotografi in una mostra che si chiamava “Confini”. Poi, abbandonai la ricerca, ma, evidentemente, si sedimentò nel mio inconscio, perché quando iniziai a presentare libri, ripresi quell’idea, ormai maturata. Avevo l’esigenza di conoscere narratori che raccontassero Napoli scoprendone il linguaggio, ma da una zona di margine, sia fisico che metafisico. Amo il linguaggio, indagare sulla parola; ad esempio, il linguaggio dell’eros è quello che si adatta a tutte le situazioni, o finisce per condizionarle. Come pure il linguaggio amoroso vero e proprio, il discorso che intercorre tra un uomo e una donna in questa zona di confine, dove tutto può accadere, dove ci si può scontrare o incontrare, o non incontrarsi mai. Era venuto a maturazione, dunque, il momento dello sguardo sulla mia città, ma dal margine, quello delimitato dalle storie delle persone e dai vari linguaggi. Napoli è una città fatta di frammenti, che io amo perché permettono di capire ed indagare, di pensare. Napoli ha tanti centri, storici e non, ognuno dei quali contiene in sé altri centri, come i palazzi antichi, come la parte sotterranea. Confine, ‘cum finis’: segnai tanti punti, li congiunsi e tracciai il margine immaginario della città. Attraverso quei punti il confine si può toccare: fu una semplice intuizione, ma molto sofferta, che mi portò a considerare che tanto si costruisce un confine quando c’è qualcosa da confinare, Perciò, ho dovuto individuare qualcosa che rappresentasse il centro di tutto”.

Qual è il centro?

“Ho scoperto il carattere simbolico della pizza, leggendolo come un cerchio senza confini, che nell’immaginario collettivo, non solo napoletano, ma mondiale, si espande all’infinito. Immediatamente, in ogni luogo, pronunciando la parola pizza, si ha l’immagine di Napoli. Chiuso il cerchio, tracciato il margine, tornai al mio primo amore, e contattai tredici fotografi e nacque la mostra “Cum finis”. Solo i poeti e i fotografi hanno per le mani lo strumento che permette di andare oltre i confini del sensibile, rievocando la concezione crociana dell’Arte intesa a tutto campo, a condizione che parta dal di dentro. Diedi un incipit ai fotografi, il piccolo testo ‘Carezza stanca’ del mio secondo libro, ‘Il costruttore di illusioni’. Per me la carezza è lo sguardo stanco sulla città: dissi loro di costruire un’immagine di Napoli guardandola dal confine”. Cos’è la bellezza? “Il sensibile è ciò che tocco, ciò che vedo, ciò che mi appare scontato: rivela la bellezza. L’idea di Dostoevskij , ‘La bellezza salverà il mondo’, con lo scrittore napoletano Erri De Luca è diventata ‘La bellezza è una forza della natura che parte dal centro della Terra, e, vincendo la forza di gravità, si espande in tutti i punti dell’universo attraversando ogni cosa’. Allora, forse Dostoevskij voleva dire questo: la bellezza è un forza ambigua, si può capovolgere e diventa: ‘Il mondo salverà la Einstein nella teoria della relatività ha formulato che E = mc2, l’equazione fisica che stabilisce l’equivalenza materiale tra l’energia (E) e la massa (m). Poi, la sua teoria è stata stravolta, cambiata, prima fisicamente e poi semanticamente, fino a diventare lo strumento di morte più distruttivo che l’uomo potesse immaginare. Secondo me, Einstein, invece, voleva semplicemente misurare la bellezza: mise in relazione con la velocità della luce la forma emblematica dell’immaterialità, ovvero l’energia, e quella della materialità, ovvero la massa. È quello che, praticamente, fanno i fotografi e i poeti”.

Tonia Ferraro
pubblicato su Lo speaker